LA
STORIA DEGLI STRUFFOLI
Gli
struffoli sono i dolci più napoletani che ci siano. A pari merito con
la sfogliatella e la celebre pastiera,
e certo più del babà, di origine
polacca. Chi ha inventato gli struffoli? Non i napoletani, nonostante la
loro proverbiale creatività. Pare che nel Golfo di Napoli ce li abbiano
portati i Greci, al tempo di Partenope. E dal greco deriverebbe il
nome “struffolo”:
precisamente dalla parola “strongoulos”,
arrotondato.
Sempre
in greco, la parola “pristòs” significa tagliato. Per assonanza,
uno “strongoulos pristòs”, cioè una pallina rotonda tagliata: vale
a dire lo struffolo, nella Magna Grecia è diventata “strangolapre(ve)te”:
il nome che si dà a degli gnocchetti supercompatti, in grado di
“strozzare” gli avidi membri del clero.
Poiché
la penuria di certezze stimola la fantasia, qualcun altro si è
inventato che struffolo derivi da strofinare: il gesto che compie chi
lavora la pasta, per arrotolarla a
cilindro prima di tagliarla in palline. C'è
anche chi ritiene erroneamente che lo
struffolo si chiami così perché “strofina” il palato: nel senso
che lo solletica, per la
sua bontà. E chi pensa addirittura, che la radice di struffoli sia da
collegare allo strutto (il tipo di grasso con cui anticamente venivano
fatti e in cui venivano fritti)
Se non è ancora ben chiaro
da quale etimo – né da quale regione - gli struffoli provengano (c’è
pure chi li fa nascere in Medio Oriente), è
viceversa chiarissimo dove vanno: prima nelle nostre pance, e poi sui
fianchi (se ne abbiamo ingurgitati troppi). Ben noto è anche il loro
percorso: gli struffoli si sono spinti in tutta l’Italia Centro-meridionale
Due
famosi trattati di cucina del 1600, il Latini e il
Nascia, citano come “strufoli - o anche struffoli -
alla romana” dei dolci preparati alla stessa maniera degli
struffoli napoletani. In Umbria e in Abruzzo lo
struffolo si chiama cicerchiata, perché le palline di pasta fritta
legate col miele hanno la forma di cicerchie: legumi che è meglio non
mangiare per via dei loro semi velenosi che possono provocare paralisi e
allucinazioni (in certe
zone d’Italia, “ma che,
hai mangiato cicerchie?” equivale a dire “hai le traveggole?”).
Quindi,
due nomi (struffoli e cicerchiata) per uno stesso dolce. Ma pure
l’opposto: due dolci diversi con lo stesso nome. Struffoli, per
l’appunto.
Gli
abitanti della Tuscia, regione intorno a Viterbo, chiamano ancora oggi
struffoli quelle frittelle di pasta soffice e leggera che altrove
vengono definite “castagnole”, e si mangiano a Carnevale.
Gli
struffoli si trovano pure a Palermo,
con qualche piccola ma non sostanziale variante, una delle quali
consiste nella perdita di una f (“strufoli”): le Sicilie erano due,
ma lo struffolo rimaneva unico.
Nella
preparazione degli struffoli molto è lasciato al naso (hanno un
bell’aroma), ma nulla è lasciato al caso. Ciascuna pallina di pasta fritta
è un capolavoro di
ingegneria domestica, selezionato in centinaia d’anni di
sperimentazione nelle cucine di ogni tipo.
Perché
il vero struffolo dev’essere piccolo? Perché così aumenta la
superficie di pasta che entra in contatto
col miele, e il sapore ne guadagna. E questo avviene soltanto se
si confezionano delle palline di pasta di piccole dimensioni. Il
miglior rapporto pasta/miele migliora i rapporti familiari, almeno
durante le festività natalizie. Gli struffoli migliorano la qualità
della vita. Lo fanno
adesso, e figuriamoci quanto lo facevano prima: fino a pochi anni fa la vita media era molto più
breve, e in media, molto più
grama. Si mangiava poco e male, fuorché a Natale e alle feste
comandate.I
bambini, poi! Di merendine, nemmeno l’ombra. L’unica consolazione,
per loro (e per tutti gli altri…) erano
i dolci come gli struffoli: che non
fanno male, e non vanno a
male, in quanto si
conservano a lungo. Gli
struffoli, come tutti gli evergreen, nella loro sostanziale immutabilità
presentano molte varianti: regionali, familiari e
personali. In questo sono un po’ come le polpette: anche se gli
ingredienti sono esattamente gli stessi, mangerete tanti struffoli
diversi quanti sono le case in cui vi verranno offerti (o le pasticcerie
in cui li acquisterete).Vi
accorgerete che ciascuno ritiene che i “propri” struffoli siano
quelli autentici: quelli della tradizione, tramandati da una nonna, una
mamma o – ancora meglio! – da una zia monaca. Quest’ultima, quando
c’è, è una garanzia: a Napoli un tempo gli struffoli venivano
preparati nei conventi, dalle suore dei vari ordini, e recati in dono a
Natale alle famiglie nobili che si erano distinte per atti di carità.
Come
accade a tutte le ricette ormai abbondantemente codificate, che sembrano
non presentare punti oscuri, gli struffoli sono insidiosi: nascondono
infatti molti segreti, spesso custoditi gelosamente.Uno
di questi sta nel miele: che dev’essere abbondante. Senza di lui, un
dolce non può definirsi veramente tale. Come simbolo della Dolcezza, il
miele è un Mito: i Gemelli Indiani Ashvin, messaggeri degli Dei,
mangiano miele nel cielo mattutino, e la Bibbia racconta come Sansone estraesse dall’interno del leone da lui ucciso un
favo d’api e di miele. La cosa lo mise di buon umore, tanto da
spingerlo a formulare un
indovinello: “dal divoratore è uscito il cibo, dal forte è uscito il
dolce” (Giudici, 14).
Morale:
dalla morte nasce la vita. A proposito di nascita, il corpicino
del Bambino Gesù viene
definito “roccia che dà miele”.
Non
è quindi un caso che gli struffoli siano un dolce tipicamente
natalizio.
Ecco
un’altra regola aurea: negli struffoli non esistono elementi
accessori. Tutto è importante. Dai canditi ai diavolilli.
Nella
ricetta degli struffoli trovano posto arancia e cedro candito, ma la
parte del leone (come nella pastiera e nella sfogliatella) la fa la
zucca candita: la famosa "cucuzzata".
Se non si trova già pronta qui ci sono le istruzioni per farla.
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